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INTERVISTA a SCIATTOproduzie

(a cura di Alessandro Nieddu)

Fate un’autopresentazione.

S: 1990 – si costituisce nella Facoltà di Architettura di Roma, occupata, il gruppo SCIATTO. Prime importanti esperienze sono degli interventi d’installazioni e performance, per il Festival People to People e per l’underground Festival Totalitni Zona Organicke Umeni a Praga. Il gruppo diviene SCIATTO produzie: laboratorio di produzione di installazioni e di eventi che hanno come soggetto di azione la città. Si costruisce un legame profondo con le realtà dei centri sociali per numerosi eventi seminari laboratori e festivals.

2000 – SCIATTO produzie diventa uno studio per allestimenti e installazioni, temporanee o stabili, in costante e stretta connessione con la città e con le sue trasformazioni. “Come gruppo d’azione scenografica e come laboratorio di progettazione architettonica SCIATTO riconosce nei luoghi di confine sociali ed urbani, l’ultimo campo significativo per l’operare artistico. Trova il proprio ambito di ricerca nelle periferie, nelle possibilità di provocare mutazioni, reinterpretazioni dello spazio della metropoli. Ed è lo straniamento lo strumento di frattura che visualizza un’immagine alterata, una modifica temporanea della realtà”.

Perchè questo nome ?

S: SCIATTO è una resistenza, contro le forme patinate della società dello spettacolo. Nasce come nome di una rivista piegata e non tagliata che non abbiamo mai fatto, e diventa subito il nostro nome collettivo. Una volta a Praga, nel 1990 in quell’esperienza che ci ha dato la spinta per i dieci anni successivi di installazioni e performance, si aggiunge produzie, produzioni, che è una carica costrudistruttivista.

Qual’è l’origine della vostra formazione?Oltre all’università cosa è stato per voi fondamentale?

S: Ci siamo incontrati ad Architettura occupata a Roma, che vuol dire la Pantera. L’unico movimento che non ha raggiunto nessuno dei suoi obbiettivi, ma ha mostrato una profetica capacità di interpretare il presente e il futuro anteriore. Praticamente il movimento di Cassandra. Ma poi la formazione intellettuale è una cosa complessa, specialmente in un gruppo che somma diverse entità. Siamo legati al punk, alla cultura industriale (musica e tecnoproduzioni ambientali), al DIY e alle occupazioni, anche temporanee. Alla cultura psichedelica e al cut-up. Burroughs-Beyus-Bad Trip. Duchamp-Deleuze-Debord. Dick-Hakim Bey-Davis. C’è Mart Stam Melnikov e Piranesi. Velvet-Einstuerzende-Tupac. C’è una mappa dell’arte processuale che abbiamo disegnato e che racconta un po’ tutte le nostre derivazioni e deviazioni.

Cosa significa per voi fare architettura?

S: Fare architettura è provocare mutazioni in un tempo e in uno spazio: è un processo, strettamente legato alle forme del controllo e della liberazione; è un sistema micronarrativo legato ai flussi metropolitani e alle zone morte e vive della città; è il punto d’implosione fra società e capitale; è divenuta, definitivamente nel tempo, il veicolo ideale per un agire politico, sociale, oltre che semplicemente culturale.

Ci sono integrazioni disciplinari continue nel vostro progettare? Quali?

S: Progettare è un processo, s’integra con tutte le percezioni del presente, con le forme di vita che deve raccontare, con gli ecosistemi cui viene a contatto. Siamo progettisti bladerunner, che corrono su un filo fra discipline diverse. Etnologie urbane, antrosofie diffuse, degradografie, scienze del corpo, psicogeografie e mappature influenzali. Tutte le forme di narrazioni per immagini (danza, fumetto, narrazione orale) e di artrologie.

Semplicemente non è mai possibile progettare solo con gli strumenti formali dell’architettura e all’interno della sua disciplina, che isola, preserva e non produce relazioni di spazio e società.

Di cosa vi occupate ultimamente?

S: Delle solite cose. Progetti, fumetti, multimedia, teoria. Narrazioni. Architettura diretta per chi abita la città.

Quali sono i lavori a cui siete più legati?

S: Sarajevo Mostplaces. Bassa Frequenza. Risalta Bene sul Bianco. Displacements… fra le cose degli anni Novanta…. Che poi è una strana domanda, da gruppo rock… tutto il nostro lavoro è un processo, non importano molto i nodi che traccia, ma gli sviluppi, le provenienze…e ogni probabile derivazione e deviazione.

Un artista particolarmente interessante legato al vostro lavoro.

Josef Beyus, Pinot  Gallizio, Survival Research Laboratories.

Giudicate attuale il Situazionismo?

S: No, consideriamo vitale la riflessione che ha innescato. Non c’è attualità in una profezia, è sempre fuori del suo tempo. Il futuro per noi è obsoleto, come dicono i situazionisti catanesi. Per rispondere veramente a questa domanda dovremmo fartene un’altra: è attuale il momento della tua nascita? O si attualizza giorno per giorno?

Qual è il vostro rapporto con queste tematiche?

S: Seminale.

E’ stato anche per voi un normale ritrovarvi all’interno di tali discorsi?

S: Anche per noi?!? Non c’è normalità nel ritrovarsi, ritrovarsi da qualche parte è una coincidenza spettacolare, pornografica, unica. Trovarsi nel Situazionismo per noi è stato inevitabile. Ma non abbiamo incontrato troppa gente lì…

I concetti, le idee situazioniste che vi hanno coinvolto maggiormente?

S: La capacità di raggiungere una conoscenza un sapere attraverso un’azione diretta sul territorio, la capacità di ottenere ciò, fuori da sovrastrutture intellettuali, ma verso cognizioni e consapevolezze trasversali.

Ditemi cosa sono per voi oggi, la deriva, il detournement, la psicogeografia.

S: Resta, per la psicogeografia, una delle definizioni originarie dell’Urbanismo Unitario: costruzione integrale di un ambiente in legame dinamico con esperienze di comportamento. La deriva è l’attività di ricerca che si può condurre con i più diversi metodi (artistico-scientifici) e tecnologie per produrre i materiali narrativi che organizzano la cartografia influenzale. Il detournement ha perso parecchio del suo potenziale, è ora sostanzialmente una tecnica di spettacolarizzazione. Ci sembra più potente lo straniamento come metodo che ripulisce e azzera, permette visioni eterotopiche.

I personaggi del Situazionismo a cui vi sentite più legati o a cui ritenete di dovere qualcosa dal punto di vista artistico?

S: Raoul Vaneigem

Debord diceva di voler ricreare dei luoghi, delle città, in cui fosse possibile il libero dispiegamento delle passioni. E’ un obbiettivo comune al vostro lavoro?

S: Ovviamente, tracciare luoghi desideranti è l’obbiettivo della nostra vita. Forse ci si potrebbe anche lavorare.

L’idea di New Babylon, di una città in divenire, realizzata, costruita dagli stessi abitanti, la trovate reale, un ipotesi attuale o un semplice sogno ?

S: Difficile avere a che fare con utopie romantiche….

Constant proponeva un nuovo modello di città, che non era la città normalmente pensata, ma un processo abitativo che diveniva, variava costantemente nel tempo, mobile, nomade. Un modello che doveva nascere per una diversa società, come lui stesso disse, ancora di là da venire. Capovolgendone i termini sarebbe stato più facile: l’architettura che rivoluziona la società?

S: E’ ancora difficile stabilire chi viene prima, meglio pensare ad un legame strettamente biunivoco, di rimandi continui.

La metropoli moderna è definita da alcuni critici come la principale catastrofe del XX secolo. Il modello partecipativo di New Babylon potrebbe essere un modo possibile di contrasto alla città del XX secolo?

Prima di New Babylon c’è stato Fourier e dopo, anzi quasi contemporaneamente, gli Archigram. Poi dopo, molto dopo, il movimento delle occupazioni e le TAZ e, forse, sono proprio questi ultimi eventi che ci riguardano più da vicino. La città è una scenografia inevitabile nel mondo e nei paesaggi del capitale. Noi preferiamo evitare romanticismi toutcourt, meglio l’agire consapevole, la strategia di lotta processuale concreta, attiva.

Nello studio delle città, negli ultimi anni, si sono indagati concetti quali il margine, gli spazi di risulta i, così detti, non luoghi. Quali sono ora i veri spazi da indagare, creare, costruire per capire e cambiare la città del futuro? Siamo già ad un livello successivo in cui altri sono i parametri?

S: L’idea del non luogo è una stronzata galattica. Un concetto neoromantico e reazionario che nasconde sottrae i veri rapporti di forza che si sviluppano nei luoghi. I luoghi sono spazi caratterizzati da pratiche. Non luogo è non pratica, cioè un posto dove non si faccia nulla, dove non si scambia, non si lavora. Nemmeno un’eterotopia come il carcere è un luogo dove non si fa nulla. Non so, forse allora è un luogo dove nemmeno si può andare… trovateci un non luogo e non prendiamoci un non caffè lì. Parliamo dei luoghi invece, e parliamo delle pratiche. I luoghi da indagare sono i luoghi dove si svolgono le pratiche che creano nuovi comportamenti sociali. Quelli che sfuggono ai tracciamenti preorganizzati, alle dinamiche del capitale che controllano la compagine urbana. I luoghi che sfuggono al controllo sono proprio quelli dove si sviluppano ecosistemi senzienti e dinamiche sociali da studiare. Sono belle le nuvole che coprono le mappe di Google Earth.

Provate a tracciare un percorso immaginario, un albero genealogico della vostra idea progettuale, partendo dal Situazionismo, fino ad oggi.

S: Quasi impossibile!  Forse partendo proprio dai Falansteri, dal Capitale, da Engels con la Questione delle abitazioni e noi da lì siamo capaci di arrivare fino ad Hakim Bey e oltre fino agli ultimi testi di Mike Davis.

Nel vostro modo di progettare ci sono parole quali relazione, nuova socialità, riappropriazione, autorganizzazione temporaneità, mobilità, riproducibilità. Leggetele alla luce dei vostri lavori e integratele.

S: Sono già integrate, sono insieme, sono correlate, sono ancora tutte nello stesso tempo, prodromi ed emanazioni dello straniamento…almeno per noi.

A proposito dei discorsi sulla quarta dimensione, sulla temporaneità del fare. Il concetto di tempo è essenziale nei vostri progetti?

S: Temporary Thing, certo che la reversibilità è una parte essenziale della sostenibilità. No future soprattutto nel progetto. Le città non sono fatte dagli architetti, dai pianificatori, ma da faglie tettoniche di poteri economici forti in collisione cieca con un mondo di esautorati invisibili abitanti. Gli straccioni delle metropoli che vengono spediti a colonizzare le zone impervie, inospitali e poi cacciati appena trovano la falda acquifera. Temporaneità certo. E andarsene dopo aver distrutto tutto. Possibilmente.

La politica ricopre un ruolo importante nel vostro lavoro? La politica intesa come ideale a cui rapportarsi. Oppure immaginate un ruolo direttamente politico e sociale dell’architettura?

S: Tutto il nostro operare è politico. L’architettura è politica e il fare architettura è attività politica e sociale.

Alcune realtà progettuali lavorano in stretta simbiosi con gruppi sociali emarginati, ne studiano la cultura, ne indagano le abitudini e con esse cercano di operare. Mi riferisco in particolar modo al gruppo Stalker, al lavoro nel Campo Boario di Roma. Anche voi ponete maggiore attenzione verso un’esperienza diretta nel reale come approccio alla progettazione, più che al sapere istituzionalizzato?

S: Noi non siamo zoologi urbani come i gruppi che citi. Non pratichiamo nessuna osservazione partecipata. Se ci siamo, ci siamo coinvolti, inevitabilmente, radicalmente.

Il sapere non è istituzionalizzato, il sapere è alla confluenza tra potere e libertà. È’, comunque, sempre una pratica. Poi puoi scegliere da che parte far pesare il sapere che hai praticato. E noi non abbiamo scelto le istituzioni.

Constant versus Debord. Se l’olandese puntava verso un’azione di tipo artistico architettonico più partecipativa possibile, l’intellettuale francese mirava ad una prevalente prassi politica. Vedeva in un certo tipo d’espressione artistica, anche se partecipata, l’espressione di una volontà individuale, un carattere tecnologico, un rifarsi ai gesti e alle prassi di quel mondo borghese capitalista che cercavano di combattere. Oggi un discorso del genere può sembrare fuori del mondo. O può essere riconsiderato?

S: Demodè.

La società ha veramente assunto un carattere ludico?

S: C’è poco da scherzare. La società dello spettacolo si è trasformata in società dell’informazione. E ha mutato completamente il concetto di produzione e di guerra. Che ora sono produzione e guerra di media. Un bombardamento continuo, una strategia della tensione mediatizzata, globale. Non c’è via scampo. Dov’è che si gioca qui nell’Overlook Hotel di Shining? …Così il capitale ha operato una mutazione degli uomini in bambini e li rifornisce continuamente di nuovi giocattoli colorati… certo che poi i bambini possono sempre solo ribaltare il tavolo… Magari ogni tanto si potrebbe decidere d’invecchiare solo un pochino per cambiare le regole…

Un altro movimento d’avanguardia a cui vi considerate vicini, per affinità creativa, temi proposti, ipotesi artistica?

S: Dal DADA per noi è cominciato molto….dopo il DADA c’è quasi soltanto riproduzione.

Il rapporto con i nuovi media cosa ha rappresentato e rappresenta per voi? Mi riferisco ad Internet e alla computer graphic, in particolare.

S: La sterminata e caotica rete, grande quanto il mondo, è una metapoli globale, una struttura che, come una città, è organizzata sostanzialmente per la gestione degli scambi e il transito dei flussi. Nessun interspazio, nessuna zona neutra: azzerato lo spazio abbiamo un tempo presente continuo, condensato, immateriale delle strutture urbane, città di infrastrutture e di connessioni. L’immagine si fa rappresentazione di un’immagine, la realtà si fa rituale di realtà. Il valore che resta attivo nello scambio di segni del digitale è quello della connessione, dell’interazione relazionale che riorganizza gli archivi di dati. C’interessa l’estetica del database, la computer graphic è solo una trasposizione di strumenti. Non costruisce paesaggi.

Fare architettura significa rapportarsi a dei limiti, canoni, presenti nella società, come per assecondarne le esigenze? O si tratta di infrangerli continuamente tali limiti, fornendo continui stimoli per successivi sviluppi futuri?

S: Fare architettura usando le tue parole può significare rapportarsi alle esigenze presenti nella società per fornire stimoli ai suoi sviluppi futuri. Questo non si può fare con dei canoni etici, al massimo con dei canoni (bassi) d’affitto.

Cosa è necessario fare oggi per realizzare della buona architettura?

S: Tirarsi fuori, dallo spettacolo, dalla bella architettura, dallo star design.

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